| Giuseppe Rinaldi, in arte Kaballà. Alcuni di noi lo hanno conosciuto grazie a “Cioccolato amaro e caffè”; altri lo conoscevano già come bravissimo autore di Mario Venuti; forse pochi, come me, sono legati a lui da un filo di seta, di quelli sottili e fragili che non si spezzano. Il filo di seta è l’esser nati e cresciuti nella stessa terra, l’aver parlato lo stesso dialetto, l’aver guardato lo stesso mare e lo stesso cielo, l’aver annusato gli stessi profumi al mercato del pesce in un giorno d’estate. Il filo di seta è l’esser nati e cresciuti nella stessa città, quella fucina di talenti musicali che era la Catania degli anni ’70 e ’80, un laboratorio di idee a cielo aperto. Kaballà è un artista a tutto tondo: ha esplorato la musica in tutte le sue sfaccettature, ha scritto, composto, cantato, recitato la musica, in italiano e in dialetto siciliano, in piazza, nei teatri e nelle sale d’incisione…ed esplorando la musica negli anni è riuscito, ormai milanese d’adozione, a mantenere “un ponte di pietra lavica”, come lui stesso lo definisce, con le sue radici musicali più profonde e più vere. Non per nulla il suo primo album, del 1991, è intitolato “Petra lavica (Dal Mediterraneo fino in fondo al cuore)”, quasi interamente in dialetto, in cui si avvale anche della collaborazione di un musicista come Mauro Pagani (sì, proprio lui, PFM e De Andrè…) Dolci e malinconici i testi, anche se incomprensibili ai più…
Terra antica, terra niura, focu russu ‘ntra lu mari, arrifriscu di la petra lavica.
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